Come mio solito, entro in sala con poche informazioni sul film che sto per vedere: questo modus operandi degli ultimi mesi mi ha permesso di provare sempre stupore all’accensione delle casse e del proiettore, come è successo anche questa volta con Cover-Up di Laura Poitras e Mark Obenhaus. Quello che credevo fosse un thriller giornalistico si è rivelato, invece, un documentario di grande spessore su Seymour Hersh, leggendario giornalista d’inchiesta che ha portato alla luce alcuni dei più noti scandali degli Stati Uniti, come My Lai in Vietnam o Abu Ghraib in Iraq.
Nel film, Hersh si mostra esattamente per quello che è: una figura impulsiva e spinosa. Per tutta la sua vita è stato così, e le numerose risposte piccate che offre ai registi ne sono la prova lampante. Lo confermano anche le innumerevoli inchieste che ha scritto e documentato per diverse testate, così come quelle che, in modo opposto, hanno contribuito a rovinarlo. Per tutta la durata del documentario, Hersh racconta le vicende che lo hanno visto protagonista e che hanno come “nemico” il governo statunitense: prima in Vietnam, dove un manipolo di soldati ha devastato un villaggio e ucciso tutti i propri abitanti “perché fu detto che erano vietcong”; poi nello scandalo Watergate, da cui nasce il cinema della paranoia anni ‘70; e ancora le torture nella prigione irachena compiute da soldati statunitensi. Senza la sua perseveranza a favore di una stampa libera, tutte queste vicende non sarebbero mai emerse.
Il documentario arriva in un momento storico cruciale: le destre salgono al potere con un becero populismo, attaccando subito i media e tutto ciò che potrebbe minare la propria riconferma. Non a caso Laura Poitras definisce il film “un’opera sull’impunità sistematica e sul ruolo essenziale di una stampa libera e critica”. Lo ha inseguito per anni, fin da quando, rientrata dall’Iraq, aveva riconosciuto nei reportage di Hersh su Abu Ghraib una delle poche voci di dissenso capaci di incrinare la narrazione ufficiale.
Anche il produttore Mark Obenhaus sottolinea come Hersh, nonostante la fama di “lupo solitario”, sia stato per lui un modello di giornalismo investigativo: lo conosce da oltre trent’anni e, come ammette, il desiderio di raccontarlo in un film è cresciuto “con l’aumentare delle forze schierate contro il giornalismo investigativo a livello globale”. In questo senso, Cover-Up non è soltanto un ritratto personale, ma anche il tentativo di restituire al pubblico la misura del posto che Hersh occupa nel pantheon del giornalismo americano.
Il film intreccia così lo sguardo del reporter sulle vicende che ha contribuito a rivelare con quello dei registi che, attraverso la sua ostinazione, riflettono sul valore di un mestiere sempre più sotto attacco. Hersh appare, quindi, non solo come protagonista della storia americana, ma come testimonianza vivente che la libertà di stampa è una conquista fragile, da difendere ogni giorno.







