Una riflessione non troppo breve su cibo, capitalismo e cinema
“Per continuare a mangiare, così... all'infinito!”
Philippe – La grande abbuffata
Fra le frasi da Baci Perugina più citate di tutti i tempi si può annoverare senza dubbio la massima del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach: “l’uomo è ciò che mangia”. Lo stesso Feuerbach, in seguito cercherà in tutti i modi di ripudiare questa massima, secondo lui banalizzante di tutto il lavoro di ricerca da lui svolto fino a quel momento.
Eppure, ad oggi, è difficile non intravedere un germe se non di genialità quanto meno di estrema lungimiranza all’interno di questa affermazione. Siamo ciò che mangiamo. Ad uno sguardo superficiale questo concetto può sembrare un esercizio puramente retorico inserito all’interno di una logica strettamente materialistica. L’uomo, come tutte le creature viventi, necessita infatti di nutrimento per poter continuare la propria esistenza. Affermare che ciò che mangiamo determina ciò che siamo è quindi in parte una pura constatazione. Il nutrimento che assumiamo va a rinforzare (e in un certo senso, a creare) la nostra corporeità e consente i processi fisiologici che consentono al nostro corpo di vivere, e di conseguenza a noi di esistere.
Ma perché soffermarsi semplicemente a questo?
È innegabile che l’uomo, fra tutte le specie animali, attribuisca al cibo un valore ulteriore rispetto a quello di semplice strumento di sostentamento. Un gatto, un cane, un cavallo mangiano semplicemente perché istintivamente e primordialmente conoscono l’istinto della fame, e sentono il bisogno di soddisfarlo. Nell’uomo tale pulsione è sicuramente presente, ma mediata e per certi versi amplificata da una serie di fattori che rendono il cibo qualcosa in più di un semplice insieme di sostanze atte a consentire la sopravvivenza.
Ad oggi, in molti casi il cibo rappresenta un vero e proprio status symbol. Un bene di consumo come e più di tanti altri, che va ad inserirsi perfettamente all’interno del sistema capitalistico. Chi più possiede, più può permettersi cibi esclusivi, veri e propri beni di lusso da introdurre nel proprio corpo.
In questo senso, l’affermazione di Feuerbach acquista un nuovo valore. Essere ciò che mangiamo significa attribuire un valore ontologico non solo in senso materiale (il cibo che crea il corpo), ma anche metafisico. Il cibo ad oggi non è solo atto a creare il corpo, ma anche a creare un’immagine di sé.
Andando ancora oltre, potremmo anche asserire che il cibo crea una vera e propria immagine di classe. Preferisco l’utilizzo di questo termine perché è percettibile ed evanescente al tempo stesso. Non siamo in presenza di una vera e propria coscienza di classe, ad esempio. Vi è un continuo variare di quello che viene percepito come costitutivo di uno status: tali variazioni sono così repentine che non è possibile identificare in essere nulla se non un’immagine, un continuo movimento specchiato del reale.
Un esempio di questo è la funzione aggregante del cibo. Da sempre gli esseri umani hanno sentito il bisogno, in quanto animali sociali, di riunirsi e condividere le proprie esperienze. Il momento del pasto, in cui anticamente si consumava solamente il rituale della ri-creazione della propria corporeità, è sempre stato uno dei maggiori aggreganti sociali. Dapprima, nella preistoria, il fuoco attorno a cui le tribù si riunivano per consumare la carne cacciata o le verdure raccolte. Dopo, con la creazione di realtà stanziali, si è passati al focolare familiare. Perfino negli austeri monasteri medievali, il pasto veniva consumato insieme da tutti i frati, in silenzio. Non è forse semplice intravedere proprio in questo silenzio una forma di misticismo che trascende i dettami della religione e affonda le proprie radici in qualcosa di più profondamente umano? Tuttavia, parallelamente a questo, si veniva a creare una disparità fra il cibo “plebeo” e quello dei nobili. Da un lato vi erano i contadini che si nutrivano di ciò che loro stessi producevano (concetto che ritornerà più volte), da un altro i nobili che organizzavano lussuosi banchetti. Pensiamo a Trimalchione, e all’usanza romana di vomitare durante il pasto per poter assumere più cibo. Trimalchione, in questo, è stato il primo capitalista. Un accumulatore che pur di non privarsi di nessuna delle sue ricchezze, è disposto a continuare ad ingurgitare sostanze fino alla morte.
La metafora di “mangiare fino alla morte” è espressa in modo perfetto in un film del 1973 di Marco Ferreri, ossia “La Grande Abbuffata”. Michel, Ugo, Philippe e Marcello sono quattro borghesi che incarnano perfettamente lo Spirito del loro Tempo. Michel è un produttore televisivo annoiato e appassionato di danza classica. Ugo un grande chef perennemente in crisi con la moglie. Philippe un giudice che vive ancora con la propria balia. Marcello un donnaiolo pilota dell’Alitalia. Di comune accordo decidono di riunirsi nella villa di Philippe e di mangiare, letteralmente, fino alla morte. Da questo momento in poi avrà inizio una sequela interminabile di banchetti, che porteranno progressivamente uno dopo l’altro i quattro amici all’agognato traguardo. Risulta evidente l’obiettivo di Ferreri di ridicolizzare, attraverso l’utilizzo di una allegoria in certi casi anche piuttosto esplicita il sistema di accumulo capitalista. Il cibo, in questo caso, passa da essere costitutivo della corporeità ad elemento che la disintegra. L’insoddisfazione delle proprie vite borghesi, che si basano sul vano tentativo di aggiungere ogni giorno un piatto esclusivo al proprio menu a discapito della propria felicità, si pone come tema centrale di questa anti-favola che ricorda per struttura una discesa negli inferi. Ognuno dei protagonisti incarna, a modo suo un disturbo dell’uomo moderno. Marcello è lussurioso, quasi compulsivo nella sua necessità di carnalità. Egli sarà il primo a trovare la morte, congelato mentre cerca di scappare dalla bolgia dantesca che i quattro si sono costruiti. Il motivo del tentativo di fuga è il contrappasso che Ferreri individua per lui: il cibo, l’eccesso di sostanza ingerita, ha spento in lui ogni appetito sessuale, cosa che è ovviamente inaccettabile. Il secondo a perire è Michel, costipato al punto di morire per un attacco di meteorismo dopo che l’enorme abbondanza di cibo gli impedisce di praticare il suo hobby della danza, unica cosa che lo faceva sentire realmente vivo.
Gli ultimi due superstiti, Ugo e Philippe, seguono destini simili agli altri due. Ugo morirà sul tavolo della cucina (il suo “regno”) mentre ingurgita enormi quantità di fois gras, a cui per l’occasione ha dato la forma di una cupola che ricorda un po’ San Pietro un po’ Santa Maria del Fiore. Philippe, infine, morirà di una crisi diabetica addentando un dolce a forma di seno femminile.
Dicevamo dunque un cibo che distrugge invece di creare. In questo caso essere ciò che si mangia acquista un valore ontologico negativo. I quattro amici sono accomunati dal loro appartenere ad una società che per sua stessa metodologia di funzionamento li condanna a morte. Il bene-cibo è solo lo strumento attraverso cui il loro destino si compie. Le ostriche, i tazzoni di cioccolata, la polenta, le tagliatelle, il fois gras sono solo la rappresentazione plastica di una società che accentua le nevrosi dell’uomo e che lo pone nella condizione di ricercare il piacere attraverso un accumulo distruttivo di beni e sostanze. Non più una società a misura di uomo, ma una società a misura di beni e capitali.
Tale metafora viene rafforzata dall’uso truce che Ferreri fa della forma finale che assume il cibo. Questa è, forse, una delle immagini più potenti contenute all’interno della pellicola. Ad un certo punto il bagno della villa esplode e i quattro si ritrovano letteralmente sommersi da un mare di feci. Questa deriva scatologica trova una serie di interpretazioni. La prima, piuttosto semplice, è che tutto il cibo che hanno ingurgitato, che sta distruggendo i loro corpi, è destinato a diventare materia organica espulsa dai loro corpi. La seconda, più ironica, è da ricercare ancora una volta in una critica ontologica. Nel momento in cui accettiamo di essere ciò che mangiamo, nel momento in cui accettiamo che il cibo sia costitutivo del nostro essere, dobbiamo accettare anche la degradazione di questo ciclo. Siamo escargot, siamo enormi piatti di quaglie, ma siamo anche quintali di merda che camminano.
Roberto Vitacolonna
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