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DU BIST WAS DU ISST: FOCUS SU "LA GRANDE ABBUFFATA" DI MARCO FERRERI - PARTE II

 
 

Questa metafora di grande impatto, che per alcuni è rivoltante è stata di ispirazione anche per altre pellicole. Pasolini stesso, nel 1975, dedicherà all’interno di quello che è forse il suo più audace lavoro, ossia “Salò o le 120 Giornate di Sodoma” un intero girone alla coprofagia. Sulla trama dell’opera pasoliniana c’è poco da dire. Ispirandosi all’ omonima opera del Marchese De Sade, PPP mette in scena una incredibile allegoria sull’anarchia del potere. Un manipolo di gerarchi fascisti, e quattro mistress rinchiudono infatti dei ragazzini in una villa, sottoponendoli a torture di ogni genere per quattro giorni.

I personaggi di Pasolini si nutriranno, in un rituale a metà fra la tortura e il cannibalismo, delle loro stesse feci. Tuttavia questo atto orribile e inaccettabile, per gli aguzzini è causa di piacere, mentre nelle vittime è un atto rivoltante.

L’aguzzino infatti mangiando le proprie e le altrui feci, manifesta la trasformazione definitiva nel Trimalchione già citato precedentemente. L’essere umano, insomma, che pur di continuare ad accumulare è disposto anche a compiere atti contro natura. Nutrirsi delle proprie e della altrui feci è un modo per assorbire anche gli scarti altrui, per non far sfuggire alla propria ingordigia nemmeno qualcosa che per gli altri sarebbe disumano. Differentemente, le vittime si trovano costrette a compiere qualcosa che non solo non capiscono ma trovano orribile. Nutrirsi degli scarti prodotti dai propri corpi, essere costretti per soddisfare l’altrui lussuria e compulsività a deumanizzarsi al punto di reintrodurre nel proprio corpo ciò che esso ha espulso. In questo caso, si potrebbe riscrivere ciò che dice Feuerbach interpretandolo alla luce di queste considerazioni: “l’uomo è ciò che gli fanno mangiare”.

Un altro problema da porsi è quello circa la formalità del rituale del cibarsi. Si è esaminata già la duplicità di ruolo delle sostanze di cui ci cibiamo, possano essere essere costitutive o distruttive dell’essere umano. Tuttavia ruolo centrale nella società borghese è assegnato non solo a quello che si mangia, ma anche al modo in cui lo si fa. In una società che per certi versi è l’apoteosi della liquidità, è invece di fondamentale importanza rispettare tutta una serie di etichette che vengono imposte dal manuale del buon borghese. Alcune sono regole di civilità, mutuate nel corso del tempo per aumentare l’igiene e diminuire la diffusione di eventuali malattie (l’usanza di lavarsi le mani prima del pasto, o l’utilizzo di utensili come forchetta o coltello), altre invece sono quasi esclusivamente figlie di una necessità di cristallizzare e reprimere gli istinti più bestiali di un essere umano.

Sempre Marco Ferreri mette in scena una decostruzione anche di questo rituale. Nel film “La Cagna”, datato 1972, quando i due naufraghi tornano a casa, ad attenderli c’è la civiltà. Con essa, tutta una serie di stilemi, di regole, di prudenze. A questo punto, è Liza a rompere il cerchio. Dinanzi ad un piatto di pasta non cessa di comportarsi come un cane e lascia nello sbigottimento la moglie di Giorgio, borghese nell’accezione più letterale del termine. Si sa, d’altronde, che lo sbigottimento e lo stupore sono i più borghesi dei sentimenti, perché nascondo in essi il germe del moralismo e una patina di opaci giudizi basati sull’aderenza massima a quello che è il pensiero dominante del momento. Giorgio, dinanzi a questa manifestazione, capirà che il suo posto è fuori dalla civiltà, e tornerà sull’isola con Liza. La rottura del focolare domestico, la dimostrazione plastica della pochezza del sentire comune passano per il personaggio interpretato da Mastroianni, proprio attraverso questa semplice azione. Questo ci fa intravedere due spiegazioni: la prima è che per rompere gli schemi più radicati nel tempo servono azioni piccole ma d’impatto. La seconda è che la nostra società si è appropriata in modo capillare di ogni ritualità, trasformandola in un esercizio di stile e in un prodotto vendibile.

Un’altra pellicola in cui possiamo notare la “rottura” del focolare domestico è “American Beauty”, di Sam Mendes. Lester Burnham è lo stereotipo perfetto della working class americana. Arrivato a 42 anni si trova ad affrontare una terribile crisi di mezza età che lo porta a riconsiderare i suoi modelli e il suo modo di vivere la propria esistenza. Tale rottura passa non solo dalla crisi della sua relazione con la moglie, ma anche dall’abbandono del lavoro e dalla ricerca di nuove esperienze sotto tutti i punti di vista.

Questa crisi è sancita da una crisi, dunque, anche del focolare domestico. Durante una cena, infatti, Lester, a seguito dell’ennesima critica che gli viene mossa dalla moglie, lancia un piatto contro il muro davanti allo sguardo attonito della figlia e della stessa consorte. Possiamo riconoscere due vettori in questa azione. Da un lato Lester è vettore dell’azione positiva, della rottura del focolare domestico. Lester rifiuta la formalità del contesto sociale, e manifesta il suo dissenso distruggendo la tranquillità rituale nella quale la moglie, che ricerca ossessivamente il successo e l’aumento della propria produttività, si rifugia per credere di vivere seguendo tutti i migliori standard della società. Dall’altro vi è il vettore passivo di Carolyn e Jane, rispettivamente la moglie e la figlia di Lester. Carolyn accoglie in sé i già descritti valori della middle class, pregna di necessità di sentirsi realizzata a livello lavorativo e di seguire in modo pedante i dettami imposti dalla società. Per lei la cena è il momento in cui la famiglia parla, in cui la necessità di far sopravvivere il proprio corpo mediante l’ingestione di cibo crea la possibilità di far sopravvivere la facciata felice del nucleo familiare che lei ha faticosamente creato. Questa volta il cibo, quindi, si presenta come demiurgo di una realtà sociale, come vero e proprio deterrente dell’incomunicabilità. Jane è invece il prototipo di adolescente americano in pieno conflitto con i genitori (ma pronta ad abbracciarne in seguito, gli insegnamenti) e alla ricerca della propria identità. Jane è quasi distaccata, nella sua parvenza di scocciata ingenuità, dalla situazione. Vede il vettore-padre-positivo ed il vettore-madre-negativo come due universi in rotta di collisione a cui non sente di appartenere. Lei è in un certo senso lo sguardo esterno giudicante, che non comprende come due persone adulte possano comportarsi così. Non si sente parte del sistema, pur essendo perfettamente integrata. Jane è ossessionata dal suo aspetto fisico, è in perenne conflitto con l’amica-nemica Angela, a cui si sente inferiore in quanto meno bella. Il cibo, il focolare domestico, per lei sono beni che ostacolano l’accettazione di sé. Questo ci porta ad introdurre una terza variante dell’aforisma di Feuerbach: “L’uomo è quello che non mangia”.


Roberto Vitacolonna




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