Sappiamo che al giorno d’oggi sono estremamente più frequenti i disturbi alimentari. Una chiave di lettura interessante è fornita da Rudolph Bell, il quale parla di “santa anoressia”, nel suo omonimo saggio. Bell sostiene, infatti, che molte delle Sante di cui la storia è piena, soffrissero di una particolare forma di anoressia nervosa. Questo si sostanziava in un controllo ossessivo del cibo da introdurre all’interno del proprio corpo. Le Sante stesse, figure dalle doti spiccate e dotate di peculiare misticismo, esercitavano su ste stesse una tale pressione da rifiutare il nutrimento fisico stesso, a discapito della loro corporeità. Tuttavia, in età moderna, tali disturbi non sono tanto da affiancare ad una spiccata ricerca spirituale, quanto ad una serie di pressioni esterne che vengono esercitate dalla società dei Consumi.
Sin dalla seconda metà del 900, infatti, i modelli proposti dalla cultura dominante, sono stati imbevuti di figure angeliche, a tratti quasi eteree. Le modelle ed i modelli, non erano donne e uomini comuni, ma quasi riproduzioni in carne ed ossa di canoni del mondo antico. L’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, veri e propri ultra-diffusori dell’ideologia capitalista, ha portato l’uomo e la donna comuni a doversi confrontare con degli standard sempre più elevati. Non è un caso che determinati disturbi si sviluppino quanto meno nelle loro fasi iniziali nell’adolescenza, fase per eccellenza di grande instabilità emotiva. La conseguenza è, per l’appunto, una repulsione nei confronti del cibo. I soggetti si trovano, come dei moderni santi toccati dal Dio Capitale, a rifiutare di inserire all’interno del proprio corpo delle sostanze che ne andrebbero a modificare l’immagine percepita. Spesso tali modifiche sono, beninteso, puramente tiri mancini della nostra auto-percezione. Fa impressione pensare che la nostra società sia malata al punto da trovare modi per controllare gli esseri umani senza che loro stessi se ne accorgano. Il culto dell’immagine è ovviamente legato a doppio nodo a tutta una serie di beni-servizi che vengono generosamente messi a disposizione del popolo da parte dello stato liberale: cibi healthy e bio, il corso di spinning che tanto ti farà stare bene, proprio quel vestito che ti farà sembrare più bello.
E’ incredibile pensare che ognuno di noi è allo stesso tempo quello che mangia, quello che gli viene fatto mangiare e quello che non mangia. Per certi versi la chiave per un rapporto sano e corretto con il bene cibo sembra essere una integrazione fra questi tre aspetti. Tuttavia, come ogni forma di equilibrio, è preferibile un dinamismo in divenire rispetto ad una forma statica e cristallizzata. Speculando un po’ su questo assunto, si potrebbe anche asserire per gabbare la società si debba essere in grado di trovare un giusto compromesso fra essenza costitutiva, distruttiva, induttiva e negativa del cibo.
Tuttavia, quanto ciò è possibile? In un mondo globalizzato al centro del sistema del piacere dell’uomo non c’è più la felicità, ma il continuo desiderio di avere qualcosa che non si ha. Gaber parlava di “avere un pelo”, Sordi in “Un Americano a Roma”, mostra invece la contraddizione di chi cerca di essere qualcuno o qualcosa di totalmente Altro da sé. Nella famosa scena in cui il personaggio da lui interpretato, vero e proprio fanatico dell’american way of life, si nutre voracemente di un italianissimo piatto di maccheroni, c’è tutta l’ingenuità di un popolo che è in una fase di continua adolescenza, di continua ricerca di una propria dimensione.
Cosa ci spinge ad abbuffarci fino alla morte? Cosa ci spinge a far mangiare merda a qualcun altro per un puro gusto sadico? Cosa ci spinge a ritualizzare il momento del pasto al punto che la rottura di questo rituale può coincidere con quella della civilizzazione stessa? Cosa ci spinge a guardarci allo specchio e a desiderare di essere qualcun altro, e a digiunare per questo?
Ci spinge una volontà intima ed ontologicamente nascosta di integrazione. Ci spinge la paura che uscendo dallo schema capitalistico-accumulativo si possa uscire anche dalla civilizzazione.
Sempre nel film “La Cagna”, i due protagonisti rifiutano completamente di piegarsi alle regole del mondo “esterno” e tornano nella loro primitiva isoletta pur coscienti della difficoltà di una vita da outcast, da reietti. Lo stesso Lester Burnham pagherà a carissimo prezzo la sua ribellione di uomo di mezza età, con la sua stessa vita. Con questo non voglio suggerire che l’unica via di fuga sia l’isolamento forzato, né che non ci sia nessuna via di fuga.
Roberto Vitacolonna
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