L’intrusa, secondo film di finzione del regista, costituisce un esempio esplicito di quanto appena affermato. La pellicola racconta, infatti, una storia vera trasposta in forma narrativa. La protagonista del racconto è Giovanna, che il critico Roberto Chiesi descrive come “una donna sull’orlo della terza età […], magra, dagli occhi chiari, dolci e nervosi”[1] che, a Napoli, gestisce una comunità chiamata La Masseria dove i bambini possono giocare senza rischiare di essere coinvolti nei giri della Camorra.
La tranquillità di questa comunità viene scossa dall’arrivo di Maria, moglie di un boss camorrista e della giovane figlia, Rita. Queste ultime due non verranno ben viste dalla comunità, sia in ragione del loro atteggiamento sopra le righe, sia per una forma di pregiudizio nei loro confronti.
Di particolare complessità ed interesse è proprio il personaggio di Maria, che, per citare le parole stesse del regista:
“si trova in una condizione esistenziale e psicologica di estrema debolezza, il fuori campo che non conosciamo è che forse è stata presa da giovane sotto l’ala del Rais del quartiere ed ha vissuto alla sua ombra per anni, forse un decennio. Quando viene arrestata si trova per la prima volta di fronte alle proprie responsabilità ed inizia a chiedersi dove sta andando e chi è. È disorientata e per cercare di capire cosa fare andrà a nascondersi in quella casupola, dove nessuno può farle del male. Maria è come un animale ferito, non sa chiedere e ad una carezza potrebbe rispondere con una zampata[2].”
Maria, tuttavia, nel corso della pellicola, emerge sempre più come una donna a suo modo resiliente rispetto all’ambiente da cui proviene: è lei a cercare, attraverso i suoi insegnamenti, che la piccola Rita non diventi schiava dell’ambiente da cui proviene, ed allo stesso tempo rifiuta di tornare da dove viene[3]. La diffidenza dei membri della comunità non consente loro di riconoscere nella giovane Maria e nella piccola Rita dei soggetti affini, che “vengono dallo stesso ambiente sociale” per usare le parole stesse del regista[4] e, dunque, appartenenti alla loro stessa classe. Ai loro occhi sono dei soggetti estranei sia alla comunità che al mondo che loro stessi abitano e vogliono creare, e faranno di tutto per evitare quel processo di integrazione a cui, goffamente, tendono Maria e sua figlia. Gli unici a riuscire a stabilire una connessione emotiva ed empatica con la piccola Rita saranno proprio i bambini. Infatti, sia i bambini della comunità che la figlia del boss stessa non sono ancora incastrati nelle dinamiche a cui i genitori hanno assistito, e quindi non la riconoscono, per usare le parole di Roberto Chiesi, come “figlia di un assassino”[5]. È questo un meccanismo ricorrente all’interno della “guerra fra poveri”: la difficoltà, se non l’incapacità, di riconoscere il proprio simile quando lo si incontra. Nel triste ed amaro finale del film, Maria dovrà rinunciare ad immaginare un futuro diverso per lei e Rita, e abbandonerà La Masseria: per lei e i suoi figli, infatti, “non c’è possibilità di integrazione né di relativa convivenza in quello spazio dove si dovrebbe costruire una Napoli migliore”[6].
Secondo il critico Marco Incerti Zambelli “diegeticamente Maria appare come vero e proprio corpo estraneo alla comunità, nella quale cerca un nascondiglio, che forse però è un rifugio, un luogo dal quale ripartire, una possibilità dove ricostruirsi una vita altra”[7].
Alla sua scelta di fuggire dalla Masseria seguirà una festa da parte della comunità, che la macchina da presa riprende senza gioia, causando nello spettatore una vera e propria sospensione del giudizio. La stessa Giovanna, inizialmente riluttante[8], verrà coinvolta nei festeggiamenti: nessuno si interroga su quale sarà il destino della madre e della figlia.
Non si può non ravvisare, come evidenziato in precedenza, in questa dinamica, un processo dialettico inverso relativo al termine integrazione: Maria e Rita sono e vengono dis-integrate rispetto al contesto della comunità in cui si trovano. Pur rimanendo affini per le esperienze vissute alle persone della Masseria, verranno considerate, come suggerisce il titolo dell’opera, delle vere e proprie intruse.[9] Chiuse all’interno della casupola diroccata, un luogo che ricorda sinistramente la definizione di Michel Foucault di “luogo disciplinare”[10], Maria e Rita vengono rifiutate, in sostanza, dai loro stessi simili.
Di Costanzo in questo lungometraggio appare, dunque, abbastanza critico nei confronti dell’atteggiamento sordo e giudicante della comunità. Egli stesso ha dichiarato che:
era importante restituire questo equilibrio. Molto interessante che lo spettatore venga interpellato, spingendolo a chiedersi, ma io cosa avrei fatto? Mi piacerebbe che ogni spettatore desse ragione all’ultimo che ha parlato, e che questa convinzione venisse negata da chi parla dopo.[11]
Roberto Vitacolonna
[1] Roberto Chiesi, L’intrusa. Storia di un’integrazione mancata, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 42.
[2] Ivi, pp. 43-4.
[3] Ivi, p. 44-5.
[4]AccademiaIISF, Il ritorno del rimosso: la questione Sud (verifico numero), 2022, in Youtube https://www.youtube.com/watch?v=bHYNLw2D9bo.
[5] Roberto Chiesi, L’intrusa. Storia di un’integrazione mancata, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 45.
[6] Ivi, p. 46.
[7] Marco Incerti Zambelli, Considerazioni su L’Intrusa di Di Costanzo, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 67.
[8] Roberto Chiesi, L’intrusa. Storia di un’integrazione mancata, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p.45.
[9] Ivi, p. 43.
[10] Cfr. Michael Foucault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, Torino, 2014, capitolo 3.
[11] Marco Incerti Zambelli, Considerazioni su L’Intrusa di Di Costanzo, in Juarès Baldeschi, a cura di, Vivere l’assedio: il cinema di Leonardo Di Costanzo, La Conchiglia di Santiago, San Miniato, 2023, p. 67.
Comments