Megalopolis di Francis Ford Coppola è, come noto, la concretizzazione di un’idea - e, sopratutto, di un ideale - che l’italostatunitense ha plasmato nel corso degli ultimi quarant’anni, durante i quali nessuna produzione ha creduto nel progetto reputandolo aprioristicamente una sorta di suicidio tanto economico quanto artistico.
È solo nel 2019 che Coppola riesce, non senza un enorme sforzo monetario, ad avviare la realizzazione dell’opera che per quattro decadi ha tenuto chiusa dentro il proverbiale cassetto, non senza apportarvi modiche laddove il suo pensiero e il concetto di fondo mutavano con il passare del tempo; quel tempo che sarà cervello, cuore e anima di un film che scavalca i confini delle logiche commerciali per regalare alla storia una fiaba che, nel tempo, rimarrà cristallizzata.
New Rome è una città semidistrutta da una catastrofe avvenuta qualche anno prima; Cesar Catilina un architetto che sogna di ricostruirla utilizzando il Megalon, un materiale dalle caratteristiche uniche scoperto da lui stesso. Ad opporsi però è Cicero, radicale e corrotto sindaco della città che non ha intenzione di promuovere il progetto.
Essenzialmente è questo l’incipit di una narrazione decisamente più metaforica e articolata che utilizza la storia dell’impero romano e un erudito citazionismo filosofico per innescare una grottesca ma materica parabola del presente.
Coppola anela ad un avvenire più roseo, un futuro scevro di derivazioni capitaliste in cui la corruzione avvelena gli organi dirigenti incancrenendo tutto ciò che ne sottostà; ma se l’umanità è destinata a compiere ciclicamente gli stessi errori perché schiava della propria essenza densa di paradossi e ipocrisie, come fare per costruire un domani diverso?
Francis Ford Coppola in realtà non crede sia possibile, e la natura genuinamente confusionaria di Megalopolis ne è in qualche modo la spensierata ammissione; ciò non impedisce però di provare ad ipotizzare una soluzione, che per quanto abbia implicazioni utopistiche e sostanzialmente antifisiche, può essere teorizzata grazie alla malleabilità del mezzo cinematografico: per interrompere il ciclo è necessario avere più tempo, e per avere più tempo, il tempo bisogna poterlo fermare.
Su questo principio nasce Megalopolis, una fiaba di Francis Ford Coppola.
Una fiaba spesso incoerente, disorientata, ingenua e melensa, ridondante e goffa. Fallace, ma fallace perché umana, ed è esattamente questo il punto: per riuscire nel modo più autentico possibile a trasmettere un messaggio così visceralmente umanitario è importante sbagliare, cambiare in corso d’opera, fallire nel tentativo di provarci e arrivare a destinazione con innumerevoli domande e pochissime risposte, perché è l’intento che conta, e se l’intento è sincero e spoglio di qualsiasi finalità economico-lucrativa (come Megalopolis evidentemente è), arrivati ai titoli di coda forse ci si potrà sentire spiazzati, storditi e probabilmente insoddisfatti, ma indubbiamente non derisi.
Megalopolis è un’opera universale che esiste al di là di qualsiasi recinto commerciale; un testamento artistico commovente nelle sue imperfezioni che ci augura un futuro migliore con una delle scene finali più belle della storia recente.
Federico Cenni
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