L'ultima opera di Ali Abbasi è qualcosa di talmente tanto semplice e al tempo stesso di talmente tanto importante che potrebbe seriamente essere discussa in quattro righe o in quattro pagine, e in entrambi i casi andrebbe bene lo stesso...
Il regista iraniano mette a nudo l'America e le sue controverse filtrando il tutto attraverso lo sguardo di uno dei suoi più grandi protagonisti del momento: Donald Trump, portato sul grande schermo in maniera gigantesca da un Sebastian Stan impressionante, che si cala nei panni dell'ex presidente degli Stati Uniti incarnandone tutte le sfaccettature nel modo più solido e coinvolgente possibile, restituendo una delle performance attoriali più intense che si siano viste in tempi recenti.
Partiamo dagli inizi: Donald Trump è un giovane ambizioso, un imprenditore di successo che opera nel settore dell'edilizia e che a causa di alcune circostanze non meglio specificate si ritrova immediatamente a dover fare i conti con alcune incombenze legali che gli permetteranno di entrare in contatto con Roy Cohn, un Jeremy Strong indescrivibile che interpreta uno degli avvocati più in voga e spietati dell'epoca e che col passare del tempo diventerà a tutti gli effetti il mentore principale del protagonista.
È proprio Roy Cohn infatti a modellare la fibra morale di un inesperto Donald Trump ancora fin troppo ingenuo e sprovveduto, instradandolo verso un modo di pensare e di agire dedito all'arrivismo, alla sfrontatezza e all'edonismo più sfrenato, in cui vincere ad ogni costo sembra essere l'unica valvola di soddisfazione all'interno di un circuito sociale in cui vige la legge del più forte.
Sono tre le regole fondamentali attraverso le quali Roy stabilisce il proprio rapporto con Trump: attaccare, accogliere la propria verità come verità assoluta e non ammettere mai la sconfitta neanche di fronte alle evidenze.
La pellicola si presenta con una confezione di tutto rispetto; Ali Abbasi dirige tutto in maniera puntuale dimostrando di possedere un incredibile padronanza del mezzo, facendo interagire tra di loro e in modo coerente diversi stili di regia all'interno di una miscela estetica che alterna momenti più intimi e dilatati ad altri estremamente più concitati ed isterici.
In tutto questo risulta profondamente aderente ed essenziale la scelta della fotografia: desaturata e sporca, dall' approccio visivo altamente documentaristico, quasi a voler creare un rapporto realistico e tangibile con quanto viene raccontato, permettendo allo spettatore stesso di entrare in confidenza con un opera a stretto contatto con la realtà di riferimento.
Apparentemente tutto sembrerebbe ricondurre al classico biopic, pratica che, sopratutto negli ultimi anni, sta prendendo particolarmente piede in quel di Hollywood; ma è proprio quando meno ce lo si aspetta che Abbasi sovverte tutto, realizzando attraverso il biopic quello che a conti fatti possiamo definire una sorta di horror sociale, che vomita addosso al pubblico tutto il marciume e le defezioni di una civiltà contemporanea in profondo decadimento, in cui l'etica e la morale rappresentano concetti illusori caduti sotto il peso ineluttabile di una condotta depravata e disonesta e in cui lo stesso protagonista, invece di seguire il percorso tipico dei topoi narrativi del genere, soliti mostrarne l'ascesa e la conseguente caduta, afferma il proprio io culminando in un epilogo finale estremamente inquietante in vista del futuro che ci attende, mostrandoci un Trump all'apice del suo successo.
"The Apprentice" ci racconta la nascita di un villain, la nascita di un icona amorale, materializzando ciò che l'America stessa rappresenta, attraverso una narrazione che abbraccia la satira socio-politica e in cui viene messo in risalto come le ambizioni di un singolo possano scontrarsi con le esigenze della collettività.
Non mancano ovviamente i difetti: per quanto l'impegno politico del regista che sta alla base del prodotto sia ampiamente giustificato, sembra quasi che Abbasi voglia puntare alla pancia dello spettatore piuttosto che al suo cervello, esasperando alcuni concetti attraverso un didascalismo e una libertà autoriale non sempre giustificata; il Trump descritto dal regista è un mostro, forse anche troppo (lo so, sembra assurdo) al punto da essere privato anche solo di quel minimo barlume di umanità che, perché no, avrebbe potuto sollevare qualche dilemma etico con cui sarebbe stato estremamente interessante scendere a compromessi.
La prima parte inoltre, essenzialmente metodica e chirurgica nell'imbastire i rapporti tra i personaggi all'interno dello status quo di partenza, si scontra con l'eccessiva rapidità della seconda, che in antitesi con quanto presentato prima, procede quasi per tappe, privando allo spettatore la possibilità di entrare maggiormente in profondità nelle dinamiche presentate a schermo.
Sarà infinitamente curioso intercettare la ricezione generale da parte del popolo americano nei confronti di questa operazione, soprattutto in virtù delle imminenti elezioni presidenziali che vedono concorrere lo stesso Donald Trump, che dal canto suo, sta boicottando in modo nemmeno troppo velato il progetto di Ali Abbasi, al punto che la maggior parte dei distributori e degli esercenti si dimostrano disinteressati nel proiettarlo nelle sale, intimiditi dalle eventuali conseguenze legali incontro alle quali potrebbero imbarcarsi.
C'è poco altro da aggiungere; "The Apprentice", volente o nolente è un affresco contemporaneo della nostra realtà, una rappresentazione cinica e raggelante di una verità inconfutabile che nemmeno lo stesso Trump, seguendo le regole impostagli da Cohn, può negare con così tanta leggerezza e con cui, in quanto cittadini del mondo, abbiamo l'obbligo morale di confrontarci.
Stefano Berta
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