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Immagine del redattoreStefano Berta

The Brutalist - Brady Corbet

 
 

Il brutalismo è una corrente architettonica che rappresenta il superamento del movimento moderno; corrente che impiega in maniera massiccia il cemento a vista, evidenziando prepotentemente la struttura con l'obiettivo specifico di dare forma ad una rappresentazione artistica e visiva vigorosa.

È ciò che cerca di sublimare Brady Corbet all'interno di quella che è senza alcun dubbio l'opera più chiacchierata e sconvolgente che sta muovendo l'opinione degli appassionati in questa ottantunesima edizione della mostra del cinema di Venezia.

Un opera viscerale, intima e corrotta che indaga in modo oculato e metodico le contraddizioni del sogno americano, rappresentato come un concetto astratto e illusorio pronto ad infrangere le speranze di chi si è posto l'obiettivo di perseguirlo.

L'ultimo film del cineasta statunitense fa proprio il concetto di brutalismo, attribuendo alla regia stessa e alla narrazione proposta un impronta riconducibile alle caratteristiche del movimento artistico, operando scelte stilistiche anarchiche e stranianti che sovvertono in maniera inconfutabile la struttura del lungometraggio.

László Tóth, un Adrien Brody antologico, è un architetto ebreo ungherese sopravvissuto agli orrori dell'olocausto che emigra in America in cerca di fortuna, e che dopo aver vissuto i primi anni all'insegna di umiliazioni e povertà, entra nelle grazie di un ricchissimo uomo d'affari (Guy Pierce) che gli commissiona un ambizioso progetto architettonico.

Brady Corbet mette in gioco una regia eclettica, abile nel sottoporsi ad un processo di metamorfosi che si lega perfettamente al contesto narrativo che viene affrontato, fondendo uno stile classico ad un altro estremamente postmoderno che restituisce al millimtero le volontà dell'artista.

La corruzione morale pervade la narrazione e conferisce all'opera una tonalità cupa, a tratti algida, che tratta tra le altre, tematiche incredibilmente attuali come l'integrazione e la distanza tra le classi, mascherata da un velo di ipocrisia costante pronto a crollare da un momento all'altro fino a raggiungere una situazione di stallo dalle conseguenze irreversibili.

L'inquadratura iniziale con la statua della libertà rovesciata, l'intermezzo cinematografico di 15 minuti integrato all'interno del minutaggio stesso e snodi narrativi apparentemente anti climatici sono soltanto alcuni degli esempi che incasellano il progetto tra i più peculiari che si siano visti negli ultimi anni e la sensazione, durante la visione, di trovarsi a conti fatti di fronte ad un esperienza irreplicabile non può che albergare nella concezione filmica di chi sta subendo l'opera, in quelle che sono 3 ore e 35 immersive e profondamente stimolanti.

Il progetto commissionato da Harryson Lee Van Buren al protagonista assume una valenza tanto propedeutica ai fini dello storytelling quanto contestualizzata nel disegno metanarrativo messo in piedi da Corbet, alle prese anch'esso con la costruzione dell'opera e che culmina in un finale iconoclasta in cui simbolismo, concetto e messa in scena creano un connubio perfetto in grado di chiudere il cerchio facendo breccia nell'animo dello spettatore.

È difficile parlare del film in maniera esaustiva; The Brutalist, volente o nolente, rappresenta la perfetta sintesi di come l'ambizione di un artista possa delineare un percorso lavorativo sincero e poco autocompiacente, magnificamente in linea con le esigenze del pubblico e della settima arte tutta.

Cinema nella sua essenza più brutale.


Stefano Berta

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