Lanthimos sembra essersi adagiato al successo, e questo nuovo film lo conferma. Dell’estro creativo e della radicalità formale che avevano segnato i suoi esordi resta soltanto un’eco, declinata oggi in un gusto per il grottesco sempre più addomesticato, meno glaciale e più vicino alla farsa. Bugonia non fa eccezione, e il suo percorso autoriale appare evidente: l’ibridazione tra crudeltà e ironia che un tempo disturbava lo spettatore ora diverte, alleggerendo la tensione e attenuando la carica dirompente delle immagini. Ma andiamo per gradi.
L’ultima fatica dell’autore greco (Remake di Jigureul jikyeora!, film sudcoreano del 2003) è la storia di due uomini, Teddy (Jesse Plemons) e Abel (Will Sharpe), che vivono ai margini di una società (la nostra) dominata dal potere economico e dal culto del successo. Ossessionati da teorie del complotto, arrivano a convincersi che Michelle (Emma Stone), carismatica e spietata CEO di una multinazionale, non sia un essere umano ma un’aliena intenzionata a distruggere il pianeta. Convinti di dover salvare l’umanità, i due mettono in atto un piano estremo: rapire Michelle e costringerla a confessare la sua vera natura. Il sequestro diventa così il fulcro di un racconto sospeso tra paranoia e satira sociale, in cui la logica distorta dei protagonisti riflette paure collettive più ampie: l’alienazione del lavoro, la disparità di potere, l’ossessione per il controllo.
Lanthimos usa la cornice grottesca e il tono da commedia nera per indagare i meccanismi della credulità contemporanea e il confine sottile tra follia individuale e inquietudine universale.
Il limite più evidente del film risiede però proprio nel suo tono, eccessivamente sbilanciato verso la comicità. La ricaduta frequente nella slapstick annulla ogni possibilità di empatia, svuotando di tensione i conflitti messi in scena. Le tematiche restano centrali e pertinenti al nostro presente, colmo di inquietudini sociali e culturali, ma l’approccio rimane superficiale: lo sguardo di Lanthimos non oltrepassa mai la soglia dell’analisi liminale, non si addentra davvero nella complessità che il soggetto suggerirebbe.
Il finale offre un momento di bellezza, ma non abbastanza incisivo da riscattare un’opera che, nel complesso, appare mediocre. Non per mancanza di maestria tecnica, considerato che regia, fotografia e colonna sonora sono eccezionali, quanto per l’insieme, che manca di slanci e preferisce adagiarsi in una comoda stasi, rinunciando a qualsiasi autentica vertigine narrativa o emotiva. È tutto così lampante e prevedibile sin dall’inizio, oltre che decisamente controverso nel messaggio che traspare nella sua risoluzione finale, e non credo possa definirsi come una scelta voluta in un film con queste premesse e pretese.
Sarà questo il futuro del cinema di Lanthimos?







