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Jay Kelly – Noah Baumbach

Reduce dal poco convincente Rumore Bianco – che aveva lasciato il pubblico piuttosto freddo e il regista segnato da una certa stanchezza creativa – Noah Baumbach torna sul grande schermo con Jay Kelly, nel tentativo di ricucire un rapporto forse incrinato con la settima arte.

Il film si apre con un virtuoso piano sequenza che ci catapulta nel caos di un set cinematografico, tra attori e tecnici che si destreggiano in quell’organizzata confusione che tutti i set respirano. È un inizio brillante, che però presto abbandona la frenesia della macchina per approdare a una realtà più quieta, fatta di problemi comuni, familiari, quotidiani.

Jay Kelly è, nelle intenzioni, un film sulla ricerca dell’identità: “se si diventa un bravo attore si finisce per recitare due volte”, viene detto a un certo punto. Ma allora, quale ruolo scegliere? Quello della star o quello del padre di famiglia? L’interrogativo – incarnato da un George Clooney volutamente dimesso – si traduce in una riflessione sul valore del lavoro artistico e sul prezzo che esso comporta. Realizzare un sogno significa spesso sacrificare altro: momenti, affetti, piccole felicità ordinarie. Una vita di successo, guardandola a ritroso, può davvero dirsi ben vissuta? Oppure il tempo speso accanto ai propri figli, o una semplice passeggiata col cane, hanno un valore che nessun riconoscimento artistico può compensare?

L’epifania del protagonista arriva quando anche l’ultima figlia lascia il nido, portando a galla rimorsi, rapporti spezzati e fragilità mai risolte. Accanto a lui resta Ron, il manager, interpretato da un sorprendentemente misurato Adam Sandler: figura quasi speculare, più padre adottivo che agente, anche lui diviso tra dedizione professionale e carenze familiari che a tratti lo rendono quasi il vero cuore del film.

Eppure, nonostante premesse ambiziose, la pellicola non riesce fino in fondo a centrare il proprio focus. Nel tentativo di alternare leggerezza e introspezione, finisce per semplificare i conflitti, affidandosi troppo spesso a dialoghi espliciti che ribadiscono la morale anziché lasciarla emergere. È un film dalla leggerezza “da streaming”, senza troppe pretese, che non riesce a scalfire davvero la superficie di un tema già ampiamente esplorato dal cinema.

E persino la brillante Laura Dern, con la sua lucida consapevolezza del personaggio che incarna, trasforma l’ambiguità in certezza. Un chiarimento che raffredda la tensione del dubbio: quello che resta da chiedersi è se Jay Kelly stia davvero cercando la sua identità o se stia soltanto recitando un ruolo che non è mai stato capace di interpretare.

Reduce dal poco convincente Rumore Bianco – che aveva lasciato il pubblico piuttosto freddo e il regista segnato da una certa stanchezza creativa – Noah Baumbach torna sul grande schermo con Jay Kelly, nel tentativo di ricucire un rapporto forse incrinato con la settima arte.

Il film si apre con un virtuoso piano sequenza che ci catapulta nel caos di un set cinematografico, tra attori e tecnici che si destreggiano in quell’organizzata confusione che tutti i set respirano. È un inizio brillante, che però presto abbandona la frenesia della macchina per approdare a una realtà più quieta, fatta di problemi comuni, familiari, quotidiani.

Jay Kelly è, nelle intenzioni, un film sulla ricerca dell’identità: “se si diventa un bravo attore si finisce per recitare due volte”, viene detto a un certo punto. Ma allora, quale ruolo scegliere? Quello della star o quello del padre di famiglia? L’interrogativo – incarnato da un George Clooney volutamente dimesso – si traduce in una riflessione sul valore del lavoro artistico e sul prezzo che esso comporta. Realizzare un sogno significa spesso sacrificare altro: momenti, affetti, piccole felicità ordinarie. Una vita di successo, guardandola a ritroso, può davvero dirsi ben vissuta? Oppure il tempo speso accanto ai propri figli, o una semplice passeggiata col cane, hanno un valore che nessun riconoscimento artistico può compensare?

L’epifania del protagonista arriva quando anche l’ultima figlia lascia il nido, portando a galla rimorsi, rapporti spezzati e fragilità mai risolte. Accanto a lui resta Ron, il manager, interpretato da un sorprendentemente misurato Adam Sandler: figura quasi speculare, più padre adottivo che agente, anche lui diviso tra dedizione professionale e carenze familiari che a tratti lo rendono quasi il vero cuore del film.

Eppure, nonostante premesse ambiziose, la pellicola non riesce fino in fondo a centrare il proprio focus. Nel tentativo di alternare leggerezza e introspezione, finisce per semplificare i conflitti, affidandosi troppo spesso a dialoghi espliciti che ribadiscono la morale anziché lasciarla emergere. È un film dalla leggerezza “da streaming”, senza troppe pretese, che non riesce a scalfire davvero la superficie di un tema già ampiamente esplorato dal cinema.

E persino la brillante Laura Dern, con la sua lucida consapevolezza del personaggio che incarna, trasforma l’ambiguità in certezza. Un chiarimento che raffredda la tensione del dubbio: quello che resta da chiedersi è se Jay Kelly stia davvero cercando la sua identità o se stia soltanto recitando un ruolo che non è mai stato capace di interpretare.


Mi sono laureato in Cinema alla RUFA, ho proseguito con una magistrale in Filologia Moderna e un master in 3D Digital Production. Il mio percorso unisce tecnica, creatività e cultura visiva, e nasce da una passione: raccontare storie attraverso le immagini. Amo lavorare sul campo, curare l’inquadratura e dare forma a un racconto visivo preciso ed evocativo. In Ready to Rec porto questa visione, con l’obiettivo di crescere sempre e trasformare la mia passione in progetti che parlino davvero a chi guarda.

Mi sono laureato in Cinema alla RUFA, ho proseguito con una magistrale in Filologia Moderna e un master in 3D Digital Production. Il mio percorso unisce tecnica, creatività e cultura visiva, e nasce da una passione: raccontare storie attraverso le immagini. Amo lavorare sul campo, curare l’inquadratura e dare forma a un racconto visivo preciso ed evocativo. In Ready to Rec porto questa visione, con l’obiettivo di crescere sempre e trasformare la mia passione in progetti che parlino davvero a chi guarda.


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