A cinque anni dalla prima collaborazione con Netflix, alla regia del festivo e abbastanza dimenticabile Qualcuno salvi il Natale 2 (The Christmas Chronicles 2, 2020), il veterano Chris Columbus prosegue sulla scia di un cinema capace di far rimpiangere i cari vecchi anni Ottanta – in cui, per lo meno chi sta scrivendo, di caro ricorda ben poco – , tornando dietro alla macchina da presa e consegnando al catalogo della grande N questo Il club dei delitti del giovedì (The Thursday Murder Club).
Fatti storici e inclinazioni ideologiche a parte, va senza dubbio ammesso che nel cinema gli Ottanta furono niente male, ma non in generale, quanto soprattutto per quel genere misto di commedia e avventura/commedia e thriller/commedia e giallo/commedia e azione/commedia e horror e così via che, principalmente confinato nella letteratura per ragazzi, nella radio o in piccole produzioni tv – il massimo caso fu probabilmente Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1959-1964, Rod Sterling), serie cult che non a caso vide un suo adattamento cinematografico nel 1983 con l’omonimo Ai confini della realtà (The Twilight Zone: The Movie) ad opera di tali Joe Dante, John Landis, George Miller e Steven Spielberg – , vide un convincente approdo al grande schermo favorito dall’oramai avvenuto passaggio al “cinema elettronico”, registrato su nastro magnetico – infinitamente più economico della cara pellicola – e quindi capace di abbassare il rischio d’impresa, tentando narrazioni nuove, un’apertura maggiore ai film “per ragazzi” che, oltretutto, arrivavano ai loro occhi col rassicurante effetto estetico di ciò che erano già tutti abituati a vedere comodamente adagiati in poltrona. Non a caso il cinema elettronico viene per questo detto anche “cinema televisivo”.
Tra i vari autori a cui tale paradigma cambiò di certo la vita – e non li citiamo tutti perché servirebbe una pagina, bastino quelli elencati qualche inciso più in su, che non sono da poco – , di certo c’è Christopher Joseph Columbus, di Spangler, Pennsylvania, di lontane origini italiane da parte di padre e che, ben avviato su una promettente carriera da disegnatore Marvel, nel 1972 vide Il padrino (The Godfather, Francis Ford Coppola), rimase comprensibilmente folgorato e buttò pennelli, chine e pennini per darsi all’arte della regia…ma prima, a quella dello sceneggiatore.
Columbus incise indelebilmente il suo nome nel “cinema televisivo” firmando soggetti e script di cult assoluti quali Gremlins (1984, Joe Dante), I Goonies (The Goonies, 1985, Richard Donner) e Piramide di paura (Young Sherlock Holmes, 1985, Barry Levinson), per poi, nel 1987, esordire dietro la macchina da presa col valido e forse ancor più “televisivo” Tutto quella notte (Adventures in Babysitting).
Dopo un dimenticato Heartbreak Hotel (1988) – e con uno o due “pause qualitative” – Columbus firma Mamma ho perso l’aereo (Home Alone, 1990), Cara mamma, mi sposo (Only the Lonely, 1991), Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York (Home Alone 2: Lost in New York, 1992), Mrs. Doubtfire – Mammo per sempre (Mrs. Doubtfire, 1993), Nemiche amiche (Stepmom, 1998), L’uomo bicentenario (Bicentennial Man, 1999), inaugurando poi il secondo millennio con la regia dei primi due film di una certa saga che prende il nome di Harry Potter…
Vi facciamo tutto questo REVIVAL – che quando si parla degli Ottanta ci sta sempre bene, anche se, vedrete, suona più come un REQUIEM – perché, molto onestamente, anche solo un rapido e poco approfondito elenco di tanti bei titoli, tanto ispirati, risulterebbe a chiunque assai più avvincente di dover leggere o scrivere riguardo il Columbus dei successivi – ad esempio – Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo – Il ladro di fulmini (Percy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief, 2010) o Pixels (2015), che è circa lo stesso di quest’ultimo suo sforzo per Netflix, che però, essendone questa la recensione, dovremo comunque trattare…
E sia.
Non contento di aver diretto tre quarti delle grandi star del cinema anni Ottanta – da Kurt Russel a Robin Williams, da Julia Roberts a Susan Sarandon, da Joe Pesci a Tim Curry passando per Sally Field e Hugh Grant – , a Columbus mancavano ancora da spuntare dalla lista Helen Mirren, Pierce Brosnan e Ben Kingsley, qui ad interpretare rispettivamente Elizabeth Best, Ron Ritchie e Ibrahim Arif: una ex agente dell’MI6, un ex sindacalista socialista e un ex psichiatra comportamentale, tutti in pensione nella lussuosa tenuta di Cooper’s Chase – la celeberrima e oramai vista e stravista Englefield House, nel Berkshire, recentemente apparsa in The Crown (2016-2023, Peter Morgan) e non vi diciamo in quante altre tra serie e film, pena esaurire ogni carattere della recensione – dove ogni giovedì si dilettano nel risolvere vecchi casi per divertimento, finché su tutta la pensione non incombe l’ombra delle mire economiche di Ian Ventham (David Tennant), tra i proprietari del terreno che – siccome rischia la bancarotta per una minaccia di divorzio dalla moglie che ha tradito – è deciso a far chiedere baracca e burattini per creare lussuosi loft e un altrettanto lussuoso centro eventi.
Non appena si profila il disastro, però, la morte del co-proprietario dei terreni Tony Curran (Geoff Bell), dalla parte degli anziani signori contro il socio Ian, e deceduto per aggressione, mette in moto gli anziani aspiranti investigatori, con l’aiuto della talentuosa ma sottovalutata poliziotta Donna De Freitas (Naomi Ackie) che, snobbata dal dipartimento di polizia, vede nell’indagine collaterale dei brillanti ospiti di Cooper’s Chase una possibilità di emergere e darsi da fare sul serio.
Ad infoltire un già abbondante cast di nomi non da poco troviamo un’altra star dei tempi che furono, Jonathan Price, ad interpretare il povero marito colpito da demenza senile di Elizabeth; una stella dell’attuale panorama televisivo, ossia il Tom Ellis di Lucifer (2016-2021, Tom Kapinos) ad interpretare Jason Ritchie, figlio del personaggio di Brosnan ed ex campione di sport di combattimento ora in declino causa infortunio; e la brillante attrice teatrale Celia Imrie ad interpretare Joyce, dolce signora vedova che fa ottime torte e ha un passato di medica infermiera, motivo per cui inizialmente i protagonisti la fanno entrare a far parte del club.
Mai come oggi ha senso poter tornare a parlare del già citato cinema televisivo, tanto che le varie piattaforme hanno standard sottesi e consolidati che sempre più – tranne qualche caso di cui lo stesso Netflix non è privo nel catalogo – tendono a rendere poroso e ambiguo il confine tra le sintattiche e i modi di rappresentazione di – appunto – cinema e televisione.
Il club dei delitti del giovedì non fa eccezione, anzi, se possibile, e proprio ad opera di un nome tutelare di certo tipo di cinema in tempi passati, funge da perfetta conferma.
La consolidata e famosissima struttura che funge da location pare dare adito a comodi ricicli di establishing shots per cui ci si aspetta di vedere iniziare subito dopo una sequenza di questa o quella serie che già ben conosciamo; fotografia e regia sono funzionali e di certo non di basso livello, laddove però il montaggio scandisce balzi spaziali e temporali a seguire una quantità di situazioni e personaggi che sembrano pensati più per strutturare una miniserie, piuttosto che un film di appena due – interminabili – ore; e il cast ricco, variegato di attori da miste epoche e background, si avvale di interpretazioni certo riuscite, divertenti, ma che risultano tutte più o meno comprimarie di protagonisti che non hanno tempo né di emergere è di emozionare – se non in quelle(a) scene(a) il cui fine è dichiaratamente quello e che, trattandosi comunque di una storia geriatrica, arriva al massimo risultato con forse anche meno del minimo sforzo.
Non escludiamo che la visione possa comunque risultare più che piacevole per taluni di voi, dato che in ogni caso, seppur trattato in fretta e furia e con un interminabile andirivieni di qua e di là, l’intreccio estrapolato dall’omonimo romanzo di Richard Osman possiede il giusto mix di leggerezza e turpi interessi da rimanere ben godibile…eppure è un peccato.
Sì perché il Columbus che fu scrisse la storia di quel cinema che di televisivo aveva solo qualche aspetto estetico, al più meramente tecnico, ma brillante nelle intenzioni e nella fantasia infinite volte di più dei milioni di film che ne furono eredi, di quelli che passano in continuazione su Mediaset col solo scopo di tenere compagnia o favorire sonno e risveglio di chi vi si posa davanti affetto dal canonico carbo-coma domenicale. E invece Il club dei delitti del giovedì, con buona pace delle premesse, del cast tecnico e di uno sfavillante cast artistico, si pone persino oltre questi ultimi, in quella fascia di opere che sempre più spesso – dopo esserci trovati altrettanto spesso a constatare come tante serie siano inutilmente annacquate, chiedendoci «ma non sarebbe stato meglio farne un film?» – ci sollecitano ad interrogarci sulla scelta del medium, lasciandoci col dubbio che risuona come un «ma non sarebbe stato meglio farne una serie?»
Ammesso che in certi contesti – e speriamo di sì – una differenza ci sia ancora.







