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L’Étranger – François Ozon

Adattare un romanzo come Lo Straniero sembrava quasi impossibile: più che un semplice racconto, è un saggio filosofico sull’alienazione dell’individuo moderno e sull’assurdità della condizione umana. François Ozon, con il suo film in concorso all’82esima Mostra del Cinema di Venezia, affronta la sfida scegliendo non solo di restituire ciò che il libro narra, ma soprattutto di tradurre sullo schermo le sensazioni provate dallo straniante protagonista, Meursault, lungo l’arco dell’anno descritto.

Il film, tratto dal celebre romanzo di Albert Camus, racconta di Meursault, impiegato indifferente che non versa lacrime al funerale della madre. Dopo una relazione occasionale con Marie e l’amicizia ingombrante con il vicino Raymond, l’uomo si ritrova coinvolto in una tragedia sulla spiaggia. Da qui si apre un processo surreale, in cui vengono messe in discussione la sua moralità e la sua sensibilità. Come già accadde per il tentativo di Visconti, adattare Lo straniero è impresa ardua, perché le sfumature esistenziali del romanzo sono difficili da tradurre in immagini e dialoghi.

La struttura del film riflette due approcci diversi: nella prima metà Ozon rimane più fedele al testo, mantenendo intatti alcuni episodi e alleggerendone altri; nella seconda si prende libertà narrative, introducendo dialoghi e momenti assenti nell’opera originale. Questa scelta sembra mirata a rendere più accessibile il percorso di Meursault: il regista affida alle espressioni e ai gesti minimi del protagonista gran parte del peso esistenziale, ottenendo così un racconto scorrevole e coinvolgente, capace di mantenere l’attenzione fino alla conclusione.

Dal punto di vista visivo, Ozon gestisce con precisione la macchina da presa: per due ore segue da vicino il protagonista, incorniciandolo con primi piani ripetuti ma incisivi, che lo restituiscono affascinante e al tempo stesso emotivamente vuoto. L’uso del bianco e nero offre eleganza ma sottrae un elemento cruciale del racconto: il caldo opprimente dell’Algeria. L’assenza dei colori desertici riduce l’impatto fisico della narrazione, costringendo il film a ribadire verbalmente la presenza della calura.

Nonostante questa scelta discutibile, il risultato resta un adattamento notevole, sostenuto da una regia consapevole e capace di bilanciare fedeltà e libertà. Ozon, regista prolifico e spesso poco citato nei discorsi cinefili, conferma qui la sua abilità nel rendere fruibile un’opera tanto complessa senza tradirne del tutto lo spirito.

Adattare un romanzo come Lo Straniero sembrava quasi impossibile: più che un semplice racconto, è un saggio filosofico sull’alienazione dell’individuo moderno e sull’assurdità della condizione umana. François Ozon, con il suo film in concorso all’82esima Mostra del Cinema di Venezia, affronta la sfida scegliendo non solo di restituire ciò che il libro narra, ma soprattutto di tradurre sullo schermo le sensazioni provate dallo straniante protagonista, Meursault, lungo l’arco dell’anno descritto.

Il film, tratto dal celebre romanzo di Albert Camus, racconta di Meursault, impiegato indifferente che non versa lacrime al funerale della madre. Dopo una relazione occasionale con Marie e l’amicizia ingombrante con il vicino Raymond, l’uomo si ritrova coinvolto in una tragedia sulla spiaggia. Da qui si apre un processo surreale, in cui vengono messe in discussione la sua moralità e la sua sensibilità. Come già accadde per il tentativo di Visconti, adattare Lo straniero è impresa ardua, perché le sfumature esistenziali del romanzo sono difficili da tradurre in immagini e dialoghi.

La struttura del film riflette due approcci diversi: nella prima metà Ozon rimane più fedele al testo, mantenendo intatti alcuni episodi e alleggerendone altri; nella seconda si prende libertà narrative, introducendo dialoghi e momenti assenti nell’opera originale. Questa scelta sembra mirata a rendere più accessibile il percorso di Meursault: il regista affida alle espressioni e ai gesti minimi del protagonista gran parte del peso esistenziale, ottenendo così un racconto scorrevole e coinvolgente, capace di mantenere l’attenzione fino alla conclusione.

Dal punto di vista visivo, Ozon gestisce con precisione la macchina da presa: per due ore segue da vicino il protagonista, incorniciandolo con primi piani ripetuti ma incisivi, che lo restituiscono affascinante e al tempo stesso emotivamente vuoto. L’uso del bianco e nero offre eleganza ma sottrae un elemento cruciale del racconto: il caldo opprimente dell’Algeria. L’assenza dei colori desertici riduce l’impatto fisico della narrazione, costringendo il film a ribadire verbalmente la presenza della calura.

Nonostante questa scelta discutibile, il risultato resta un adattamento notevole, sostenuto da una regia consapevole e capace di bilanciare fedeltà e libertà. Ozon, regista prolifico e spesso poco citato nei discorsi cinefili, conferma qui la sua abilità nel rendere fruibile un’opera tanto complessa senza tradirne del tutto lo spirito.


Il cinema mi accompagna praticamente da sempre: da bambino passavo ore a guardare film e a immaginare storie, oggi ho trasformato quella passione in una professione. Laureato in Arte e Tecnologia del Cinema e dell’Audiovisivo con specializzazione in Suono, e adoro tutto ciò che riguarda il dietro le quinte di un film, dai rumori più impercettibili alle colonne sonore che restano nella memoria. Per farla breve: se c’è una sala buia e uno schermo acceso, probabilmente ci sono anch’io.

Il cinema mi accompagna praticamente da sempre: da bambino passavo ore a guardare film e a immaginare storie, oggi ho trasformato quella passione in una professione. Laureato in Arte e Tecnologia del Cinema e dell’Audiovisivo con specializzazione in Suono, e adoro tutto ciò che riguarda il dietro le quinte di un film, dai rumori più impercettibili alle colonne sonore che restano nella memoria. Per farla breve: se c’è una sala buia e uno schermo acceso, probabilmente ci sono anch’io.


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