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Alpha – Julia Ducournau

Sarà la maledizione del terzo film – ci sono già passati Eggers, Aster, e secondo molti anche Jordan Peele con Nope (2022) – , questo virus che attacca autori e autrici di cinema più o meno di genere il cui sintomo principale pare la perdita di cognizione di tutto ciò che aveva reso indimenticabili e determinanti i loro esordi, cristallizzandoli nel tempo. E purtroppo alla regista e sceneggiatrice francese Julia Ducournau pare accaduto lo stesso.

Approcciando il suo recente Alpha – presentato sulla croisette dell’ultimo Festival di Cannes, in cui ha gareggiato per niente meno che la Palma d’Oro – ci troviamo catapultati in dei distopici/retrotopici anni ’80, in cui la tredicenne Alpha (Mélissa Boros) torna a casa un giorno dalla madre infermiera (Golshifteh Farahani) marchiata con il tatuaggio di una A sul braccio. Uno sconosciuto glielo ha fatto con un ago disinfettato alla buona, ad una festa, mentre la giovane giaceva svenuta dopo un abuso di non meglio specificate sostanze. La madre è quindi terribilmente preoccupata che la cosa possa far rischiare a sua figlia di contrarre il terribile virus che sta trasformando sempre più persone in statue di marmo, cosa già accaduta al fratello della madre Amin (Tahar Rahim). Questo verrà a breve ad abitare la casa di della madre infermiera e di Alpha, che non ricorda affatto di lui, e che a scuola di trova a dover sopravvivere tra la relazione segreta col giovane e fidanzato Adrien (Louaï El Amrousy) e, soprattutto, il timore dei compagni che si sparge a macchia d’olio, e che, a conoscenza della possibile infezione di Alpha, la emarginano e bullizzano nei peggiori modi.

A quattro anni dalla Palma d’Oro conquistata per Titane (2021), e a nove anni dal FIPRESCI conquistato per Raw – Una cruda verità (Grave, 2016) – sempre in quel di Cannes, dove oramai la regista è di casa – , la Ducournau riabbraccia il tanto il racconto di formazione quanto l’eccesso visivo e contenutistico, proseguendo una parabola però già discendente che – soprattutto stavolta – porta a prendere in seria considerazione la possibilità che, su di lei, il virus del terzo film abbia dato sintomi peggiori del solito.

Se infatti già Titane quasi azzerava il vincente gioco di contrasti tra l’asettica eleganza e il più esplicito gore che sostanziavano il folgorante esordio di Raw – seppur alla luce di un incontro tra uomo macchina a favorire una delle prime accennate riflessioni sul soggetto ibrido/fluido, cosa che rendeva il film, seppur imperfetto, più che degno di considerazione; con Alpha la pluripremiata regista si dimostra memore del solo gusto assai ludico del ribaltone narrativo – più o meno – inatteso, dell’affastellamento di effetti visivi ed emotivi e dell’ambiguità temporale: appena accennata o suggerita dialogicamente nei suoi primi due film, mentre in questo terzo s’aggiorna di un effettiva divisione di messa in scena tra passato e presente, che andranno poi a collimare nel sopra accennato “ribaltone”.

Tanto fumo, ma davvero poco arrosto.

Ed è forse più che mai un peccato, siccome la suggestione del virus che trasforma i deperiti corpi in raccapriccianti ma al contempo grottescamente bellissime statue morte di marmo – a metafora di una contemporaneità la cui incertezza di fronte al terrore paralizza l’agire – appare a noi assai vicina e calzante, pur senza aderire al facile pietismo e catastrofismo condiviso nei confronti di quello che poteva essere un diretto rimando alla pandemia di Covid19. La Ducournau invece ambienta il tutto in questi e cupi e inquieti anni ’80, a metà tra realtà e paranoia, ora in città gremite di folle che s’accalcano spaventate, ora in periferie di zombie arresi all’eroina, fatte di palazzi con scale infinite in cui s’accumulano i semi cadaveri di chi ha appena assunto una dose e, all’esterno, spesso spazzate da minacciose bufere che sollevano per molti metri in aria la terra delle strade, tingendo il tutto di rosso-arancio.

Peccato, quindi, che l’intuizione/consapevolezza/convinzione della regista rispetto ai tanto amati eppure tanto definitivi Ottanta – per come spazzarono via ideali e ambizioni individuali, mascherando l’atto da globalismo, libertà assoluta e ambizioni collettive tutt’altro che libere, se non del tutto imposte – s’infranga contro un accumulo di effetti e trovate singolarmente più che efficaci, ma che, nel loro complesso, finiscono per essere poco più che una grossa, disorientante e poco centrata suggestione generale.

Nel collage contenutistico composto di quella che pare una critica alla troppa libertà e smodatezza sessuale dei giovani, seguito da un quasi fisiologico ritorno del pensiero magico quale ancora di salvezza dalla presa d’atto della fine di tutto – Alpha, la madre e Amin sono di origine berbera, tra le cui genti circola la credenza nelle possessioni di questo male chiamato “il soffio rosso”, abbastanza chiaro riferimento alla sabbia sopracitata – e, a concludere, quella che sulla carta poteva essere una dolorosa ma raffinata penetrazione nella memoria traumatica del lutto; non è la vivida, policroma e ricercatissima fotografia di Ruben Impens a salvare il tutto da un aspetto magmatico dall’imponderabile pesantezza esperienziale ed esistenziale, così come nulla possono le eleganti e spaventose truccatore prostetiche di Olivier Afonso o le ottime interpretazioni di Tahar Rahim e Golshifteh Farahani – seppur inclini all’over acting – , stelle più brillanti di un cast che vede arruolata anche la Emma Mackey di Sex Education (2019-2023, ideata da Laurie Nunn), seppur con ruolo e funzioni narrative del tutto ancillari.

La crepa però, in questo caso del comparto recitativo, è però purtroppo rappresentato dalla giovane protagonista, evidentemente non ancora in grado di gestire il confine tra eccesso espressivo e credibilità come i più navigati colleghi – tanto da raggiungere i picchi di pedanteria e irritazione del giovanissimo protagonista del pur apprezzato Babadook (The Babadook, 2014, Jennifer Kent) – , nonché viatico e sede di identificazione/ocularizzazione esperienziale primaria di tuttu quei limiti, cigolii ed effetti di lungaggine di un incedere in cui tutto perennemente vaga, senza che nulla sembri mai trovare davvero il suo posto e il suo senso.

Non che ciò sia del tutto un male, intendiamoci: per ciò che racconta è anche sano e impattante la sensazione di straniamento e naufragio cognitivo, la quale però si annulla se – come accade in questo Alpha – si tenta in extremis di riassettare il tutto, riconducendo ambiguamente ogni suggestione al senso specifico che la storia voleva avere fin da principio, e con un’ambigua semi rivelazione che, seppur intrigante – ma che non vi accenniamo neanche – , pare l’ultima falange lanciata nel tentativo di riacchiappare per i capelli il capo di chi è già affogato.

Insomma, signori, come vedrete oggi siamo brevi. Da un lato perché dispiace impiegare troppe pagine per distruggere un’opera che alla base ben prometteva, evitandosi di avere lo spazio e la tentazione di sviscerare ogni motivo e falla che non hanno permesso a certe premesse di materializzarsi con successo; da un lato perché c’è, purtroppo, davvero poco da dire.

Nella ultima opera della bi-premiata a Cannes Julia Ducournau c’è la paura e la stasi, la tenerezza e la confusione, la rabbia e la perdita…ma non c’è un progetto che sappia connettere tali spot emotivi, o andare aldilà di quelli che dovevano essere i vortici emotivi e i baratri dell’artista nel periodo in cui scrisse il film…prendi l’arte  e mettila da parte, e non perché non valga, ma perché sola non basta.

Non possiamo che chiudere dicendo che la regista parigina arriva in sala con una delle più grandi delusioni dell’anno – che forse ci si poteva aspettare, pur sperando nel contrario – , in coerente e direttissima linea discendente con i degni seppur ambivalenti esiti di Titane e dando poco a cui aggrapparsi per un futuro risollevamento di certe sorti artistiche…cosa che in ogni caso, e in onore della bella memoria che conserviamo di Raw, le auguriamo dal profondo del cuore.

Sarà la maledizione del terzo film – ci sono già passati Eggers, Aster, e secondo molti anche Jordan Peele con Nope (2022) – , questo virus che attacca autori e autrici di cinema più o meno di genere il cui sintomo principale pare la perdita di cognizione di tutto ciò che aveva reso indimenticabili e determinanti i loro esordi, cristallizzandoli nel tempo. E purtroppo alla regista e sceneggiatrice francese Julia Ducournau pare accaduto lo stesso.

Approcciando il suo recente Alpha – presentato sulla croisette dell’ultimo Festival di Cannes, in cui ha gareggiato per niente meno che la Palma d’Oro – ci troviamo catapultati in dei distopici/retrotopici anni ’80, in cui la tredicenne Alpha (Mélissa Boros) torna a casa un giorno dalla madre infermiera (Golshifteh Farahani) marchiata con il tatuaggio di una A sul braccio. Uno sconosciuto glielo ha fatto con un ago disinfettato alla buona, ad una festa, mentre la giovane giaceva svenuta dopo un abuso di non meglio specificate sostanze. La madre è quindi terribilmente preoccupata che la cosa possa far rischiare a sua figlia di contrarre il terribile virus che sta trasformando sempre più persone in statue di marmo, cosa già accaduta al fratello della madre Amin (Tahar Rahim). Questo verrà a breve ad abitare la casa di della madre infermiera e di Alpha, che non ricorda affatto di lui, e che a scuola di trova a dover sopravvivere tra la relazione segreta col giovane e fidanzato Adrien (Louaï El Amrousy) e, soprattutto, il timore dei compagni che si sparge a macchia d’olio, e che, a conoscenza della possibile infezione di Alpha, la emarginano e bullizzano nei peggiori modi.

A quattro anni dalla Palma d’Oro conquistata per Titane (2021), e a nove anni dal FIPRESCI conquistato per Raw – Una cruda verità (Grave, 2016) – sempre in quel di Cannes, dove oramai la regista è di casa – , la Ducournau riabbraccia il tanto il racconto di formazione quanto l’eccesso visivo e contenutistico, proseguendo una parabola però già discendente che – soprattutto stavolta – porta a prendere in seria considerazione la possibilità che, su di lei, il virus del terzo film abbia dato sintomi peggiori del solito.

Se infatti già Titane quasi azzerava il vincente gioco di contrasti tra l’asettica eleganza e il più esplicito gore che sostanziavano il folgorante esordio di Raw – seppur alla luce di un incontro tra uomo macchina a favorire una delle prime accennate riflessioni sul soggetto ibrido/fluido, cosa che rendeva il film, seppur imperfetto, più che degno di considerazione; con Alpha la pluripremiata regista si dimostra memore del solo gusto assai ludico del ribaltone narrativo – più o meno – inatteso, dell’affastellamento di effetti visivi ed emotivi e dell’ambiguità temporale: appena accennata o suggerita dialogicamente nei suoi primi due film, mentre in questo terzo s’aggiorna di un effettiva divisione di messa in scena tra passato e presente, che andranno poi a collimare nel sopra accennato “ribaltone”.

Tanto fumo, ma davvero poco arrosto.

Ed è forse più che mai un peccato, siccome la suggestione del virus che trasforma i deperiti corpi in raccapriccianti ma al contempo grottescamente bellissime statue morte di marmo – a metafora di una contemporaneità la cui incertezza di fronte al terrore paralizza l’agire – appare a noi assai vicina e calzante, pur senza aderire al facile pietismo e catastrofismo condiviso nei confronti di quello che poteva essere un diretto rimando alla pandemia di Covid19. La Ducournau invece ambienta il tutto in questi e cupi e inquieti anni ’80, a metà tra realtà e paranoia, ora in città gremite di folle che s’accalcano spaventate, ora in periferie di zombie arresi all’eroina, fatte di palazzi con scale infinite in cui s’accumulano i semi cadaveri di chi ha appena assunto una dose e, all’esterno, spesso spazzate da minacciose bufere che sollevano per molti metri in aria la terra delle strade, tingendo il tutto di rosso-arancio.

Peccato, quindi, che l’intuizione/consapevolezza/convinzione della regista rispetto ai tanto amati eppure tanto definitivi Ottanta – per come spazzarono via ideali e ambizioni individuali, mascherando l’atto da globalismo, libertà assoluta e ambizioni collettive tutt’altro che libere, se non del tutto imposte – s’infranga contro un accumulo di effetti e trovate singolarmente più che efficaci, ma che, nel loro complesso, finiscono per essere poco più che una grossa, disorientante e poco centrata suggestione generale.

Nel collage contenutistico composto di quella che pare una critica alla troppa libertà e smodatezza sessuale dei giovani, seguito da un quasi fisiologico ritorno del pensiero magico quale ancora di salvezza dalla presa d’atto della fine di tutto – Alpha, la madre e Amin sono di origine berbera, tra le cui genti circola la credenza nelle possessioni di questo male chiamato “il soffio rosso”, abbastanza chiaro riferimento alla sabbia sopracitata – e, a concludere, quella che sulla carta poteva essere una dolorosa ma raffinata penetrazione nella memoria traumatica del lutto; non è la vivida, policroma e ricercatissima fotografia di Ruben Impens a salvare il tutto da un aspetto magmatico dall’imponderabile pesantezza esperienziale ed esistenziale, così come nulla possono le eleganti e spaventose truccatore prostetiche di Olivier Afonso o le ottime interpretazioni di Tahar Rahim e Golshifteh Farahani – seppur inclini all’over acting – , stelle più brillanti di un cast che vede arruolata anche la Emma Mackey di Sex Education (2019-2023, ideata da Laurie Nunn), seppur con ruolo e funzioni narrative del tutto ancillari.

La crepa però, in questo caso del comparto recitativo, è però purtroppo rappresentato dalla giovane protagonista, evidentemente non ancora in grado di gestire il confine tra eccesso espressivo e credibilità come i più navigati colleghi – tanto da raggiungere i picchi di pedanteria e irritazione del giovanissimo protagonista del pur apprezzato Babadook (The Babadook, 2014, Jennifer Kent) – , nonché viatico e sede di identificazione/ocularizzazione esperienziale primaria di tuttu quei limiti, cigolii ed effetti di lungaggine di un incedere in cui tutto perennemente vaga, senza che nulla sembri mai trovare davvero il suo posto e il suo senso.

Non che ciò sia del tutto un male, intendiamoci: per ciò che racconta è anche sano e impattante la sensazione di straniamento e naufragio cognitivo, la quale però si annulla se – come accade in questo Alpha – si tenta in extremis di riassettare il tutto, riconducendo ambiguamente ogni suggestione al senso specifico che la storia voleva avere fin da principio, e con un’ambigua semi rivelazione che, seppur intrigante – ma che non vi accenniamo neanche – , pare l’ultima falange lanciata nel tentativo di riacchiappare per i capelli il capo di chi è già affogato.

Insomma, signori, come vedrete oggi siamo brevi. Da un lato perché dispiace impiegare troppe pagine per distruggere un’opera che alla base ben prometteva, evitandosi di avere lo spazio e la tentazione di sviscerare ogni motivo e falla che non hanno permesso a certe premesse di materializzarsi con successo; da un lato perché c’è, purtroppo, davvero poco da dire.

Nella ultima opera della bi-premiata a Cannes Julia Ducournau c’è la paura e la stasi, la tenerezza e la confusione, la rabbia e la perdita…ma non c’è un progetto che sappia connettere tali spot emotivi, o andare aldilà di quelli che dovevano essere i vortici emotivi e i baratri dell’artista nel periodo in cui scrisse il film…prendi l’arte  e mettila da parte, e non perché non valga, ma perché sola non basta.

Non possiamo che chiudere dicendo che la regista parigina arriva in sala con una delle più grandi delusioni dell’anno – che forse ci si poteva aspettare, pur sperando nel contrario – , in coerente e direttissima linea discendente con i degni seppur ambivalenti esiti di Titane e dando poco a cui aggrapparsi per un futuro risollevamento di certe sorti artistiche…cosa che in ogni caso, e in onore della bella memoria che conserviamo di Raw, le auguriamo dal profondo del cuore.


Diplomato all’Artistico, laureato magistrale in cinema, critico e politicamente schierato in tutto…ma non sui film: se li fai bene, bene, o questi anni di studio e scrittura s’abbatteranno su di te con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno – come contasse qualcosa. Amante dell’avanguardia, dello spavento, di ciò che è lento e del B/N; prometto di scovare quel cavillo non visto – e non volevate – , quella tematica persa – “chi ve lo fa fa” – , ma strappando un sorriso o, magari, solo un colpevole ghigno.

Diplomato all’Artistico, laureato magistrale in cinema, critico e politicamente schierato in tutto…ma non sui film: se li fai bene, bene, o questi anni di studio e scrittura s’abbatteranno su di te con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno – come contasse qualcosa. Amante dell’avanguardia, dello spavento, di ciò che è lento e del B/N; prometto di scovare quel cavillo non visto – e non volevate – , quella tematica persa – “chi ve lo fa fa” – , ma strappando un sorriso o, magari, solo un colpevole ghigno.


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