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À Pied d’Oeuvre – Valèrie Donzelli

Un volto da buon samaritano, mani che invece di battere sui tasti di una macchina da scrivere sradicano piante dai vasi, un’esistenza segnata dalla fatica pur di inseguire le proprie passioni. Valérie Donzelli, al suo settimo lungometraggio, prende parte in concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia con un film che porta con sé il respiro di un estremo low budget.

À Pied d’Oeuvre racconta la storia vera di un fotografo di successo (Paul Marquet, intrpretato da uno strano Bastien Bouillon) che rinuncia a tutto per dedicarsi alla scrittura, e scopre la povertà. Questo racconto radicale, che unisce chiarezza e autoironia, ritrae il viaggio di un uomo disposto a pagare il prezzo più alto per la propria libertà.

Sono tematiche necessarie, senza dubbio. Tuttavia, la domanda che mi sono posto per tutta la durata della pellicola è se abbiano ancora senso se raccontate in questo modo, mi spiego: Donzelli e Gilles Marchand (co-sceneggiatore) scandiscono le giornate di Marquet con una ripetitività eccessiva, che finisce per penalizzare il film. La struttura rimane invariata per tutti i 90 minuti (che, proprio per questo motivo, sembrano dilatarsi in maniera quasi fantascientifica): il protagonista accetta piccoli lavori e si scontra costantemente con il suo blocco artistico.

Anche i rapporti con il mondo circostante risultano deludenti e prevedibili: con i genitori il conflitto è accennato, ma mai davvero approfondito; con l’editrice assistiamo a un’evoluzione stereotipata (dapprima entusiasta, poi delusa, poi di nuovo entusiasta…); con i figli, uno mostra una fiducia incrollabile verso il padre, l’altra rimane in conflitto con lui. Capirete, quindi, che terminare la visione con una sensazione di estasi risulta praticamente impossibile.

Eppure, alcuni elementi di interesse nella sceneggiatura esistono. Marquet, il protagonista, è un uomo che arriva ad autosabotarsi pur di inseguire il proprio obiettivo: lo vediamo letteralmente consumarsi nel tentativo di scrivere il suo libro. In questo senso, i rapporti familiari e affettivi che ho appena menzionato non sono soltanto un contorno, ma il frutto di una sua scelta consapevole. L’ossessione per la propria passione, per lui, conta più di sé stesso e delle persone che lo circondano.

La Donzelli mette in scena questo dramma realistico con una consapelovezza non da poco: impugna la macchina da presa e segue un protagonista dal volto quasi innocente come se stesse girando un documentario, lasciando emergere tutta la sua sensibilità da filmmaker. Particolarmente interessanti risultano anche i punti di vista di Paul, resi attraverso riprese in pellicola 16mm, molto probabilmente scaduta. È come se la vecchia passione e il suo passato mestiere non lo avessero mai abbandonato: il suo sguardo continua a tradursi in immagini su pellicola, come se non avesse mai smesso di stringere fra le mani la sua amata Mamiya RB67.

In conclusione, Valérie Donzelli si presenta in concorso con un film dal respiro minimo, raccontando la storia di un creativo destinata soprattutto a chi si riconosce nel mondo della creazione artistica. Tuttavia, nella sua sceneggiatura manca quell’elemento fondamentale capace di rendere il lavoro davvero memorabile.

Un volto da buon samaritano, mani che invece di battere sui tasti di una macchina da scrivere sradicano piante dai vasi, un’esistenza segnata dalla fatica pur di inseguire le proprie passioni. Valérie Donzelli, al suo settimo lungometraggio, prende parte in concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia con un film che porta con sé il respiro di un estremo low budget.

À Pied d’Oeuvre racconta la storia vera di un fotografo di successo (Paul Marquet, intrpretato da uno strano Bastien Bouillon) che rinuncia a tutto per dedicarsi alla scrittura, e scopre la povertà. Questo racconto radicale, che unisce chiarezza e autoironia, ritrae il viaggio di un uomo disposto a pagare il prezzo più alto per la propria libertà.

Sono tematiche necessarie, senza dubbio. Tuttavia, la domanda che mi sono posto per tutta la durata della pellicola è se abbiano ancora senso se raccontate in questo modo, mi spiego: Donzelli e Gilles Marchand (co-sceneggiatore) scandiscono le giornate di Marquet con una ripetitività eccessiva, che finisce per penalizzare il film. La struttura rimane invariata per tutti i 90 minuti (che, proprio per questo motivo, sembrano dilatarsi in maniera quasi fantascientifica): il protagonista accetta piccoli lavori e si scontra costantemente con il suo blocco artistico.

Anche i rapporti con il mondo circostante risultano deludenti e prevedibili: con i genitori il conflitto è accennato, ma mai davvero approfondito; con l’editrice assistiamo a un’evoluzione stereotipata (dapprima entusiasta, poi delusa, poi di nuovo entusiasta…); con i figli, uno mostra una fiducia incrollabile verso il padre, l’altra rimane in conflitto con lui. Capirete, quindi, che terminare la visione con una sensazione di estasi risulta praticamente impossibile.

Eppure, alcuni elementi di interesse nella sceneggiatura esistono. Marquet, il protagonista, è un uomo che arriva ad autosabotarsi pur di inseguire il proprio obiettivo: lo vediamo letteralmente consumarsi nel tentativo di scrivere il suo libro. In questo senso, i rapporti familiari e affettivi che ho appena menzionato non sono soltanto un contorno, ma il frutto di una sua scelta consapevole. L’ossessione per la propria passione, per lui, conta più di sé stesso e delle persone che lo circondano.

La Donzelli mette in scena questo dramma realistico con una consapelovezza non da poco: impugna la macchina da presa e segue un protagonista dal volto quasi innocente come se stesse girando un documentario, lasciando emergere tutta la sua sensibilità da filmmaker. Particolarmente interessanti risultano anche i punti di vista di Paul, resi attraverso riprese in pellicola 16mm, molto probabilmente scaduta. È come se la vecchia passione e il suo passato mestiere non lo avessero mai abbandonato: il suo sguardo continua a tradursi in immagini su pellicola, come se non avesse mai smesso di stringere fra le mani la sua amata Mamiya RB67.

In conclusione, Valérie Donzelli si presenta in concorso con un film dal respiro minimo, raccontando la storia di un creativo destinata soprattutto a chi si riconosce nel mondo della creazione artistica. Tuttavia, nella sua sceneggiatura manca quell’elemento fondamentale capace di rendere il lavoro davvero memorabile.


Il cinema mi accompagna praticamente da sempre: da bambino passavo ore a guardare film e a immaginare storie, oggi ho trasformato quella passione in una professione. Laureato in Arte e Tecnologia del Cinema e dell’Audiovisivo con specializzazione in Suono, e adoro tutto ciò che riguarda il dietro le quinte di un film, dai rumori più impercettibili alle colonne sonore che restano nella memoria. Per farla breve: se c’è una sala buia e uno schermo acceso, probabilmente ci sono anch’io.

Il cinema mi accompagna praticamente da sempre: da bambino passavo ore a guardare film e a immaginare storie, oggi ho trasformato quella passione in una professione. Laureato in Arte e Tecnologia del Cinema e dell’Audiovisivo con specializzazione in Suono, e adoro tutto ciò che riguarda il dietro le quinte di un film, dai rumori più impercettibili alle colonne sonore che restano nella memoria. Per farla breve: se c’è una sala buia e uno schermo acceso, probabilmente ci sono anch’io.


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